Come aiutare e come aiutare chi li aiuta
Lucia Formenti
Psychotherapie-Wissenschaft 12 (2) 2022 61–66
www.psychotherapie-wissenschaft.info
https://doi.org/10.30820/1664-9583-2022-2-61
Riassunto: Mentre imperversa la guerra in Ucraina, il personale di soccorso di tutta Europa lavora per sostenere i milioni di profughi costretti ad abbandonare le proprie case. Eventi così stressanti e continuativi richiedono risposte utili a prevenire e promuovere la salute emotiva di tutte le vittime. In tale ambito l’EMDR risulta essere la terapia elettiva per il trattamento e la rielaborazione delle esperienze traumatiche vissute sia dai rifugiati sia da chi si occupa di loro. Nell’articolo l’autore, dopo una breve introduzione teorica circa le fasi del trauma e il processo del lutto, illustrerà le modalità di intervento di primo soccorso con EMDR più efficaci per sostenere i rifugiati e chi si occupa di loro. In questo tipo di emergenze infatti, data la continua sollecitazione cui sono sottoposti, i soccorritori si trovano a rischio di sviluppare una traumatizzazione vicaria. È dunque fondamentale pensare ad un intervento di supporto mirato anche per loro al fine di aumentare la resilienza.
Parole chiave: EMDR, trauma, emergenza, rifugiati, traumatizzazione vicaria, resilienza, interventi di primo soccorso
Il complesso periodo storico che stiamo vivendo con l’imperversare del conflitto tra Russia e Ucraina ci può far vivere un grande senso di incertezza, sentimenti di impotenza dinnanzi a eventi minacciosi e imprevedibili e perdita di speranza nel futuro. Eventi così stressanti e continuativi richiedono risposte utili a prevenire e promuovere la salute emotiva di tutte le vittime e persone esposte. In tale ambito l’EMDR risulta essere la terapia elettiva per il trattamento e la rielaborazione delle esperienze traumatiche vissute sia dai rifugiati sia da chi si occupa di loro.
Secondo Mitchell (& Black, 1996) «un evento si definisce come traumatico quando è improvviso, inaspettato ed è percepito dalla persona come minaccia alla sua sopravvivenza, suscitando un sentimento d’intensa paura, impotenza, perdita del controllo, annichilimento». Il trauma viola i presupposti su come funziona il mondo e comporta perdite di tipo fisico ma anche emotivo, con conseguenti reazioni di lutto. Il lutto è il sentimento di intenso dolore che si prova per la perdita di una persona cara.
La morte, specialmente di una persona vicina, di un bambino o di un ragazzo, è stata considerata da sempre come l’evento che provoca non solo una perdita fisica e reale, ma anche una perdita emotiva e psicologica in chi sopravvive. La reazione al lutto è fortemente personale e può essere influenzata da diversi fattori: le circostanze che hanno portato alla morte, il grado di prevedibilità, le caratteristiche personali della persona che vive il lutto (età, ruolo nella famiglia, grado di parentela, qualità della loro relazione, caratteristiche psicologiche personali), le risorse nel contesto. Non sempre e non per tutti è possibile portare a termine il processo di elaborazione del lutto in senso positivo. Talvolta si può restare bloccati per lungo tempo, senza riuscire ad accettare l’accaduto e poter proseguire il cammino della propria vita. Il lutto complesso si presenta quando le manifestazioni del lutto normale si acutizzano e diventano croniche.
Secondo il modello del Trauma Center di Boston (Fernandez & Solomon, 2002) le fasi generali del trauma sono sei. Dapprima la situazione esplode, il corpo si attiva con reazioni che sono prettamente fisiologiche e anche la mente si attiva per trovare soluzioni. Sono reazioni innate di sopravvivenza, non mediate dal controllo volontario. La fase di shock che segue è caratterizzata da confusione, disorganizzazione mentale, perdita di concentrazione. I correlati fisici sono tremori, nausea, sensazione di freddo, pianto; appare un senso di incredulità e di irrealtà con conseguente dissociazione o evitamento. Può essere frequente anche uno stato di iperattività generale con vissuti emotivi di rabbia, paura, tristezza, sensazioni di isolamento da quello che accade intorno e possibile esaltazione per essere sopravvissuto. Queste reazioni fisiologiche ed emotive di solito durano al massimo un paio di giorni e diminuiscono progressivamente lasciando lo spazio alla fase dell’impatto emotivo che può durare anche qualche settimana. È importante tenere presente che l’impatto emotivo può colpire in tempi diversi. In questa fase dopo lo shock arriva la consapevolezza di quanto è successo. Le reazioni più comuni sono incubi, flashback, pensieri intrusivi, isolamento, depressione, colpa, ansia, sensazione crescente di pericolo, ecc. Mano mano che la persona comincia a prendere la distanza dall’evento critico inizia anche ad elaborare a livello emotivo quanto è successo e a riflettere su come uscire dalla situazione. È la fase di coping nella quale si cerca di trovare un nuovo equilibrio dopo quanto successo. La mente si attiva per cercare di capire cosa è accaduto, dare un significato all’evento e rielaborarlo sia dal punto di vista emotivo che da quello cognitivo. Le domande possono essere tra le più varie: alcune possono portare a nuove soluzioni, altre ad una strada morta. Domande come «perché è successo, se solo fossi/avessi» aumentano l’ansia e bloccano l’abilità di rielaborare; è invece più efficace e utile chiedersi cosa posso fare. La fase di accettazione e risoluzione è quella in cui le persone accettano che l’evento è successo ed è reale, che sono vulnerabili ma non sono impotenti: non possono controllare tutto ma possono controllare le proprie emozioni, comportamenti e reazioni. Nell’ultima fase le persone imparano a convivere con quanto successo: nonostante ciò, ci saranno comunque momenti difficili che ci ricorderanno l’accaduto (anniversari, notizie simili …). Queste situazioni funzionano da trigger, stimoli che attivano lo stesso disagio: imparare a vivere con quanto successo significa imparare ad affrontare queste situazioni senza essere sovrastati dal dolore.
In letteratura un’ampia gamma di studi mostra come un’esperienza traumatica può causare significative difficoltà psicologiche in un vasto numero di persone (McFarlane, 2010). Gli individui possono sviluppare resilienza nell’affrontare tali esperienze, manifestando reazioni da stress subcliniche o di breve durata, ma possono anche manifestare tutta una serie di problemi psicologici (Bonanno, 2004). Gli effetti più deleteri includono problemi di salute mentale come il disturbo da stress post traumatico (PTSD), depressione, altre forme di disagio psicologico o una qualità di vita più povera. Anche quando i sintomi subclinici sono gli unici sintomi presenti, il PTSD o altri disturbi correlati potrebbero avere un esordio tardivo (mesi o anni dopo o dopo successive esposizioni a traumi (Andrews et al., 2007; McFarlane, 2010).
Un trattamento specifico tempestivo mirato ad aiutare le persone vittime di traumi è dunque indispensabile, soprattutto nel caso di eventi traumatici causati dall’uomo che coinvolgono intere comunità e popolazioni, come ad esempio la guerra in Ucraina che stiamo vivendo in questo periodo con milioni di profughi costretti ad abbandonare le loro case. Gli interventi precoci sono importanti per prevenire l’insorgenza di future psicopatologie debilitanti come il disturbo da stress post-traumatico, di modo da aiutare le vittime ad alleviare i sintomi e riprendere il controllo delle loro vite il prima possibile.
La salute mentale dei rifugiati è generalmente riconosciuta come influenzata sia da fattori di stress traumatici che attuali (ad es. Miller & Rasmussen, 2010). I rifugiati sono ad alto rischio di vivere eventi traumatici prima, durante e dopo la fuga (Silove et al., 1991). Prima di fuggire, gli eventi traumatici possono variare dalla testimonianza forzata di atrocità, ai bombardamenti, agli stupri in civili sopravvissuti alla guerra, al ferimento o alla morte di altri. La fuga stessa può essere traumatizzante perché nel processo i rifugiati possono affrontare gravi minacce tra cui lesioni o morte o traffico di esseri umani (ad esempio, Arbel & Brenner, 2013). Dopo la fuga infine rischiano di essere imprigionati o deportati (ad es. Robjant et al., 2009), mentre donne e bambini sono particolarmente a rischio di abusi o sfruttamento sessuale (vedi www.unhcr.org). Oltre a tutti questi fattori di stress traumatici, gli attuali fattori di stress sia nel paese di rifugio che nel paese di origine influiscono sulla salute mentale di adulti e bambini (Fazel et al., 2012; Steel et al., 2009). Tale accumulo di fattori di stress non solo rende i rifugiati più a rischio di sviluppare problemi di salute mentale rispetto alla popolazione generale (Bronstein & Montgomery, 2011; Fazel et al., 2005), ma può anche complicare il loro recupero psicosociale. La paura, la depressione, l’ansia, la rabbia e il dolore derivanti da esperienze traumatiche non elaborate, infatti, hanno effetti debilitanti sull’individuo che possono far deragliare ogni speranza di una vita felice e produttiva. La ricerca ha rivelato conseguenze gravi e durature nell’arco della vita non solo per la salute mentale ma anche fisica. In aggiunta a ciò, il trauma non trattato e altre esperienze di vita avverse hanno profondi effetti sia individuali che interpersonali (Shapiro, 1995). Il dolore dell’individuo può infatti provocare violenza domestica ed effetti intergenerazionali attraverso legami inadeguati, aggressività o ritiro.
A causa dell’accumulo di stress traumatico e attuale affrontato dai rifugiati, il trattamento per questo tipo di popolazione è consistito a lungo da interventi di supporto, non strutturati e multimodali, senza alcun focus centrale sull’elaborazione dei ricordi traumatici e con un’efficacia limitata (ad es. van Wyk et al., 2012; Carlsson et al., 2005). Vi è la convinzione generale che non ci sia molto che possiamo fare per il trauma, che non possiamo né prevenire né efficacemente trattare o la convinzione che non siano disponibili terapie traumatologiche efficaci e riconosciute che siano anche abbordabili e brevi. Un’altra argomentazione è quella per cui i sopravvissuti alla guerra e alle persecuzioni tendono a dare la priorità a preoccupazioni pratiche come l’ottenimento di lavoro, istruzione e alloggio rispetto a problemi di salute mentale; la terapia focalizzata sul trauma potrebbe di conseguenza non essere la loro prima priorità. Un’ulteriore difficoltà è pensare a come poter raggiungere un numero elevato di persone in poco tempo. La guerra e la persecuzione infatti causano principalmente distruzione a livello di comunità piuttosto che a livello individuale. Gli interventi psicologici dovrebbero quindi essere rivolti in primis ai gruppi, alle famiglie e alle comunità piuttosto che agli individui.
Detto questo, data la prevalenza della traumatizzazione generata in tutto il mondo dalla violenza diretta e culturale, la necessità di un trattamento tempestivo del trauma è chiara. Come indicato nell’articolo di Carriere (2014) è fondamentale fornire sufficiente attenzione e risorse in modo da poter curare i milioni di persone colpite a livello globale. Gli effetti dannosi del trauma non trattato infatti possono avere gravi implicazioni per la società intera. Sebbene siano necessarie ulteriori ricerche, questi risultati indicano che la disponibilità di un trattamento del trauma tempestivo ed efficace può aiutare a portare alla riconciliazione, alla coesistenza pacifica e al potenziale di sviluppo non violento. È quindi fondamentale smettere di trascurare lo stress traumatico e iniziare a riconoscere che esistono trattamenti che funzionano.
È qui che entra in gioco la terapia di desensibilizzazione e rielaborazione attraverso il movimento oculare (EMDR). Secondo la ricerca e le linee guida internazionali, la terapia EMDR può dare un grande contributo ai rifugiati nel prevenire i disturbi mentali, risolvendo i fattori di rischio e facilitando l’integrazione e l’adattamento a una nuova cultura, utilizzando e trasformando l’esperienza critica a cui questa popolazione è esposta in modo costruttivo. Gli interventi EMDR sono brevi, efficaci e focalizzati sullo stress e sul trauma.
L’EMDR è un trattamento ben convalidato per i ricordi traumatici e riconosciuto come trattamento di scelta in questo campo. Più di 48 studi randomizzati controllati hanno dimostrato l’efficacia dell’EMDR per le vittime di traumi. Secondo le linee guida pratiche recentemente pubblicate dell’OMS (2013), la terapia cognitivo comportamentale incentrata sul trauma (CBT) e l’EMDR sono le uniche terapie raccomandate per bambini, adolescenti e adulti con PTSD. Tuttavia, esistono grandi differenze tra i due trattamenti: «A differenza della CBT con focus sul trauma, l’EMDR non comporta (a) descrizioni dettagliate dell’evento, (b) sfida diretta delle convinzioni, (c) esposizione prolungata o (d) compiti a casa» (ibid., p. 1). Questi fattori rendono la terapia EMDR particolarmente utile nelle emergenze umanitarie. Oltre alle linee guida dell’OMS, la terapia EMDR è inclusa in molte altre linee guida pratiche internazionali per il trattamento dei traumi: Australia, Francia, Israele, Irlanda del Nord, Paesi Bassi, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti. Queste linee guida per il trattamento approvano l’EMDR per il trattamento del PTSD come risultato di molti studi clinici randomizzati. Oltre a questo, due linee guida pratiche internazionali approvano l’EMDR per l’uso con i clienti con disturbo da stress acuto, l’American Psychiatric Association (2003) e l’Australian Center for Post traumatic Mental Health (2007).
Meno ricerche sono state condotte in situazioni di emergenza per le risposte allo stress acuto per numerose ragioni; alcuni dei quali includono la mancanza di un’infrastruttura di ricerca in atto, il disordine dei supporti e delle risorse della comunità in tempi di crisi e il fatto che i medici che stanno aiutando le vittime sono naturalmente riluttanti a raccogliere dati in caso di disastri. La priorità in questo tipo di situazioni è di fornire servizi e alleviare le sofferenze il prima possibile. Per questi motivi, la maggior parte delle ricerche sui primi interventi EMDR sono studi sul campo o casi di studio. Uno studio sul campo (Jarero et al., 2011) ha riscontrato che il protocollo EMDR per incidenti critici recenti (EMDR-PRECI) è efficace in una situazione di stress acuto, riportando una significativa diminuzione dei sintomi post-traumatici dopo una sessione EMDR che è stata mantenuta a 12 follow-up settimanale. È importante notare che il raggiungimento di una risoluzione così rapida dopo una sessione consente di curare molti sopravvissuti in un tempo molto breve dopo un evento traumatico.
Esiste un corpo di ricerca emergente a sostegno dell’uso dell’EMDR e dei protocolli EMDR modificati per il trattamento di traumi acuti sia in formato individuale che di gruppo. C’è un crescente consenso e riconoscimento sul fatto che il modo migliore per aiutare i sopravvissuti a un evento traumatico è offrire un primo soccorso psicologico con EMDR. Un libro completo sugli interventi EMDR precoci sulla salute mentale (Luber, 2015) dimostra la profondità e l’ampiezza dei protocolli EMDR specializzati che vengono utilizzati con crescente frequenza dopo una crisi per migliorare i sintomi traumatici.
Gli interventi EMDR offrono un aiuto psicologico e psicosociale sia individualmente che in gruppo in tutte le fasi del trauma, nella prima fase della crisi umanitaria, dopo alcune settimane e mesi, e anche dopo alcuni anni se la popolazione non è stata raggiunta prima. Gli scopi del trattamento spaziano dalla riduzione delle reazioni di eccitazione, al prevenire l’accumulo di stress traumatico, al ridurre i fattori di rischio per i disturbi mentali ed emotivi, alla valorizzazione di risorse e di fattori di protezione.
Il trattamento EMDR inoltre è facilmente attuabile con l’aiuto di un traduttore.
I rifugiati ucraini, come altre popolazioni di profughi, sono stati costretti ad abbandonare le loro case e a separarsi dai loro amati per poter sopravvivere, costretti ad assistere alla morte di altri e ad atti atroci come lo stupro di massa, esposti ad alti livelli di traumatizzazione prima, durante e dopo la fuga. Si parla dunque di trauma multiplo, di lutti multipli e di un trauma che è ancora in corso.
Ci sono tuttavia delle peculiarità che contraddistinguono questo tipo di vittime da altri rifugiati. Innanzitutto la popolazione ucraina era abituata a vivere in una situazione di conflitto, ma si trattava di conflitti interni al loro confine, con una percezione generale di avere il controllo e di assenza di minaccia reale. Il trauma della guerra è stato dunque per loro ancora più imprevisto e inaspettato, sconvolgendo quella che ormai era divenuta una normale routine quotidiana. In tale routine ucraini e russi vivevano insieme, creando famiglie miste e diversi legami di parentela. La guerra li ha costretti a separarsi, a vedere l’altro come potenziale nemico, a dubitare dell’altro o a comportarsi come se l’altro lo fosse per non incorrere in minacce più gravi alla propria vita. Il conflitto è così entrato nella vita delle persone a tutti i livelli, colpendo la comunità nel profondo. Coloro che sono scappati hanno dovuto abbandonare in patria i propri cari, soprattutto uomini costretti a combattere e anziani, perché impossibilitati ad affrontare il viaggio. Tutto ciò ha generato nei sopravvissuti, oltre al senso di colpa, una profonda ambivalenza: la voglia di crearsi una nuova vita in una nuova nazione, ma al contempo il desiderio o il senso del dovere di tornare in patria per salvare e ricongiungersi ai loro amati. Ecco che allora molti profughi cercano aiuto nella nazione ospite poi, una volta recuperati soldi e cibo, provano a rientrare in patria. Chi invece decide di rimanere, se da una parte tende ad evitare di parlare di quanto vissuto, dall’altra cerca in continuazione di mettersi in contatto con chi si trova ancora in Ucraina e di rimanere aggiornato su quanto sta accadendo con il risultato di esporsi nuovamente ad immagini crudeli e violente.
Gli studi sulle vittime di trauma dimostrano che le risposte allo stress acuto dopo un disastro sono universali, mentre la cultura della persona determina il modo in cui queste risposte si manifestano. Gli ucraini per cultura sono chiusi, riservati e tendono a non mostrare le proprie emozioni; solitamente prediligono l’aiuto del gruppo e delle comunità di connazionali presenti nel paese che li accoglie piuttosto che cercare sostegno all’esterno; in alcuni casi ricorrono a tecniche di auto-guarigione. Tale atteggiamento è rinforzato anche dal fatto che la guerra è ancora in corso per cui l’evitamento per questa tipologia di vittime funziona come strategia di sopravvivenza. Essi hanno bisogno di mantenersi forti per non cedere. La maggior parte delle persone è dunque bloccata nella fase uno o due del trauma. Lavorare con questa tipologia di vittime significa quindi avere a che fare con persone con continue reazioni acute da stress, bloccate nel tempo e nello spazio.
L’obiettivo principale degli interventi psicologici nella fase acuta del trauma per individui, famiglie e gruppi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2013) è (a) fornire sollievo e preoccupazione per ridurre gli stati di ipervigilanza (creare un ambiente sicuro) e (b) fornire informazioni sicure a tutti i soggetti coinvolti. Nel lavorare con queste vittime è importante prima di tutto parlare brevemente ma chiaramente in relazione a quanto possiamo offrire loro. Durante i primi giorni è cruciale soddisfare i loro bisogni primari (cibo, bevande, sonno, igiene, silenzio e pace), rassicurarli sul fatto che possono riposare, che sono al sicuro e che possono prendersi il loro tempo per pensare a cosa fare. Non bisogna avere fretta di dare loro soluzioni veloci né sovraccaricarli con troppe informazioni. Come accennato sopra, alcune persone potrebbero essere in uno stato di freezing e non avere quindi voglia di raccontare quanto vissuto; altri, una volta che si sentono al sicuro, potrebbero iniziare ad esprimere le proprie emozioni con forti reazioni di pianto, mostrando tristezza, paura o rabbia. In questi casi è importante prima di tutto mettersi in una posizione di ascolto silenzioso offrendo la propria presenza e mantenendo il contatto visivo senza fare domande o chiedere dettagli sulla loro storia. Meglio piuttosto parlare in generale della famiglia, del lavoro che facevano prima, di cosa li ha aiutati in passato, focalizzandosi sulle loro risorse e capacità di coping. Fondamentale è utilizzare il gruppo come risorsa.
Qui è dove si inserisce l’intervento con l’EMDR: dopo una prima fase di stabilizzazione e preparazione, il protocollo EMDR di gruppo offre una risposta veloce e funzionale alla rielaborazione delle esperienze traumatiche vissute da queste persone. In questo tipo di intervento le persone non sono costrette a parlare o condividere quanto vissuto. Ogni partecipante può scegliere su cosa lavorare individualmente sentendosi al contempo parte di un gruppo. Vi è così la possibilità di raggiungere in poco tempo un ampio numero di persone ottenendo in breve tempo una diminuzione della sintomatologia post-traumatica come dimostrato dalla ricerca.
In questo tipo di emergenza, dove la richiesta di supporto è costante e tende sempre più ad aumentare, non va dimenticata un’altra categoria di vittime: quella dei soccorritori. Secondo la tipologia di vittime, così come descritta da Taylor e Frazer (1981), il personale di soccorso rientra nelle vittime di terzo tipo. Gli operatori che vivono il contatto quotidiano con le sofferenze acute, nonostante tendano a sviluppare una soglia di tolleranza piuttosto alta verso gli eventi traumatici, sono comunque soggetti a disturbi psicopatologici a breve o lungo termine causati dalla traumatizzazione vicaria. Il termine stabilisce che anche l’operatore può vivere un trauma durante il lavoro, non per esposizione diretta, ma per il contatto con l’individuo traumatizzato. La relazione con la vittima può infatti investire l’operatore dello stesso trauma in modo secondario e indiretto. È un processo fisiologico: l’empatia nasce da una sorta di imitazione fisica della sofferenza altrui che evoca i medesimi sentimenti nell’imitatore (Titchener, 1909). I neuroni specchio sono la famiglia di cellule cerebrali in grado di suscitare reazioni speculari alle azioni e alle intenzioni del nostro simile. Questi neuroni ci mettono nella condizione di imitare nel nostro corpo e nella nostra mente l’emozione, la sensazione o l’atto in corso (Rizzolatti & Craighero, 2004). Gli eventi critici che possono influenzare un operatore sono eventi che coinvolgono bambini, morte o ferimento grave in servizio, suicidio/omicidio di un operatore, incidenti con molte vittime, casi in cui la vittima è un parente o conoscente, fallimento del proprio lavoro dopo notevoli sforzi, lesioni gravi, mutilazioni o deformazione del corpo delle vittime, eccessivo interesse dei media, ferimento, attacco o uccisione, necessità di compiere scelte difficili e/o inadeguate al proprio ruolo operativo, prendere decisioni importanti in tempi rapidissimi. I fattori che possono influenzare la risposta a tali eventi sono il livello di coinvolgimento, la percezione di avere il controllo su quanto sta accadendo, il livello di minaccia o di perdita, l’assurdità dell’evento e il livello di preavviso, la prossimità fisica e psicologica alla vittima, il supporto di colleghi e amici e il livello di stress nella vita dell’operatore. Lo stress si manifesta quando le persone percepiscono uno squilibrio tra le richieste avanzate nei loro confronti e le risorse a loro disposizione per far fronte a tali richieste. Sebbene la percezione dello stress sia psicologica, lo stress può influire anche sulla salute fisica delle persone: Everly (et al., 1989) per l’appunto lo definisce come una risposta caratterizzata da un aumento dell’eccitazione fisica e psicologica. Lo stress del soccorso passa attraverso le fasi della Sindrome Generale di Adattamento (SGA) di Selye (1936): fase di allarme, fase di resistenza, fase di esaurimento.
Si passa dal normale stress positivo allo stress negativo: da un comportamento adattivo orientato alla sopravvivenza, con la messa in allarme di tutto l’organismo, in cui il soggetto valuta il pericolo, controlla l’emozione e l’aggressività e compie nel modo giusto i gesti appresi, finalizzati ad un azione efficace, si passa ad una fase in cui il prolungarsi dello stato di allarme dovuto alla continuità del pericolo sovrasta l’operatore. In questa condizione i soccorritori possono manifestare sintomi a livello del pensiero, delle emozioni, sensazioni fisiche e del comportamento. Tra le più comuni possiamo trovare: difficoltà di concentrazione, difficoltà di memoria, difficoltà a risolvere i problemi, pensieri negativi legati a sé, al mondo, al futuro, bassa autostima, scarso senso di autoefficacia, irritabilità, depressione, ansia, instabilità emotiva o emotività appiattita, rabbia, spossatezza, problemi relazionali con la famiglia. A livello fisico vi possono essere disturbi gastrointestinali, vertigini, disturbi del sonno, tremori muscolari, indebolimento del sistema immunitario, ipertensione, problemi alla schiena. A livello comportamentale l’operatore potrebbe di conseguenza manifestare condotte quali la fuga o l’evitamento, diventare aggressivo, auto-medicarsi abusando di sostanze stupefacenti, alcol o tabacco, cambiare drasticamente il modo di comportarsi o diventare auto o etero distruttivo. In tutti questi casi la terapia EMDR può offrire un valido supporto intervenendo in modo mirato ed efficace. La ricchezza dei diversi protocolli EMDR permette infatti di offrire un intervento di primo soccorso nelle varie fasi dell’emergenza.
Con il termine di resilienza si intende la capacità individuale di far fronte in modo positivo ad un evento traumatico, di riorganizzare la propria vita continuando il suo normale sviluppo sentendosi rinforzato dopo l’evento. È mantenere la flessibilità e l’equilibrio mentre affrontiamo circostanze stressanti ed eventi traumatici ed implica che ci siano comportamenti, pensieri e azioni che possono essere appresi o sviluppati. È qui dove l’EMDR può fare tanto, sia attraverso la rielaborazione di esperienze stressanti sia attraverso l’installazione di risorse. Nel primo caso, quello che si nota durante una sessione di EMDR è un cambiamento nella struttura cognitiva della persona, nel suo comportamento, nelle sue emozioni e sensazioni, e conseguentemente nella convinzione del proprio valore personale e nel livello di autostima che cambia. Con l’installazione di risorse invece si lavora sulle reti positive rinforzando le capacità e le competenze interne, relazionali o simboliche che il soccorritore già possiede.
Più nello specifico, prima che un evento accada, l’obiettivo degli interventi EMDR è quello di migliorare la resilienza e la capacità di adattamento funzionale alle situazioni di emergenza. I protocolli impiegati aiutano il soccorritore a sviluppare il senso di auto-efficacia, la sua abilità di modulare gli affetti e di calmarsi di fronte alle difficoltà. Immediatamente dopo un evento critico gli interventi di primo soccorso con EMDR hanno lo scopo di prevenire la sensibilizzazione e l’accumulo di memorie negative, o anche di rimuovere ostacoli al processo di rielaborazione adattivo spontaneo che ognuno ha, promuovendo così la salute mentale del soccorritore. Nel medio e lungo termine si può intervenire con l’EMDR per riprocessare le memorie traumatiche e/o per rinforzare i successi ottenuti nel corso del tempo dal soccorritore. Come per i rifugiati, anche con i soccorritori è possibile, anzi consigliato, lavorare in gruppo per raggiungere in poco tempo il maggior numero di persone e per sfruttare la risorsa del team.
L’EMDR può intervenire profondamente sulle conseguenze di una traumatizzazione così come sugli effetti di uno stress estremo consentendo di accettare il passato in modo funzionale, di vivere al meglio il presente e di prepararsi al futuro. In un momento storico e sociale così carico di sofferenza offre l’opportunità di una speranza: non possiamo cambiare quanto accaduto, ma possiamo aiutare le persone a riviverlo in modo diverso e più funzionale per sé, aiutando anche chi aiuta.
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L’autrice
Lucia Formenti è psicologa, psicoterapeuta, consulente EMDR, esperta in psicologia dell’emergenza e gestione delle catastrofi. È formata in CISM e Debriefing e dal 2015 al 2021 è stata rappresentante di EMDR Europe nel Comitato permanente per la psicologia delle crisi, dei disastri e del trauma dell’EFPA (European Federation of Psychological Associations) e nell’organizzazione Victim Support Europe. È membro del Center of Expertise for Victims of Terrorism dell’UE.
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