Ti amerò sempre anche se non ti ho mai amato

Elisa Tommasin

Psychotherapie-Wissenschaft 12 (1) 2022 41–47

www.psychotherapie-wissenschaft.info

CC BY-NC-ND

https://doi.org/10.30820/1664-9583-2022-1-41

Riassunto: Il testo espone lo svolgimento di un percorso psicoterapeutico a stampo psicodinamico-psicogenerativo, tuttora in corso, iniziato nell’ottobre 2018 con una ragazza oggi diciottenne (qui hiamata Kora) vittima di abusi sessuali compiuti dall’attuale marito della madre. Kora inizia il percorso terapeutico in uno stato post-traumatico e tutta la prima parte della terapia ruoterà intorno al recupero dell’accesso al mondo affettivo ed emotivo: si presenta sconnessa dalle emozioni e dagli affetti, è una ragazza che evacua tramite gli agiti, che non antepone mai il pensiero all’azione. Con il passare delle sedute, riuscirà ad accedere al suo mondo affettivo e a far emergere ricordi e sensazioni legati agli abusi, al suo passato, ai suoi vissuti attuali. La capacità di pensare irrompe sulla scena psicoterapeutica e il lavoro si articola intorno all’integrazione di questa riattivazione. Il seguente scritto presenta il percorso terapeutico di Kora suddiviso secondo tre momenti di snodo fondamentali che sono sottolineati dal racconto di tre sogni; letti e interpretati alla luce di una particolare elaborazione del modello psicoanalitico bionano, che trova nel termine di psicologia generativa (Marcoli, 1997), la sua precisa denominazione. Tale modello prevede che lo psicoterapeuta si ponga nella posizione di rappresentante simbolico della coppia genitoriale interna: una funzione mentale preposta ad accudire la mente stessa, proteggendo e limitando. L’inizio del processo di interiorizzazione della figura terapeutica in quanto rappresentate della coppia genitoriale, permette a Kora di accedere ad un pensiero generativo, ponendosi domande da approfondire e attivandosi in prima persona nella sua quotidianità per ottenere risultati e perseguire l’appagamento dei suoi desideri.

Parole chiave: Psicologia Generativa, Coppia Genitoriale Interna, Interpretazione sogni, Psicoterapia adolescenza, Abusi sessuali, Psicoterapia dinamica

La teorizzazione della Coppia Genitoriale Interna (CGI) è uno dei fondamenti del modello psicogenerativo (Marcoli, 1997, 2005; Marcoli & Branca, 2014); modello che offre le coordinate interpretative per la psicoterapia con Kora, qui presentata. L’obiettivo fondamentale di tale metodologia è quello di riparare la CGI della ragazza, consegnandole la capacità di poterla costruire, decostruire e ricostruire continuamente: ciò avviene grazie all’identificazione con il terapeuta, in quanto rappresentante della CGI.

Il modello psicogenerativo nasce all’interno di un paradigma psicoanalitico costruttivista (Viderman, 1982), facendo riferimento ai miti eziologici bioninani, kleiniani e fruediani. Tale setting si è sviluppato per far fronte alle esigenze psicopatologiche contemporanee che trovano nei casi limite il loro modello paradigmatico. La problematica borderline è concepita principalmente dal punto di vista del pensare, nella misura in cui la difettualità essenziale di questi pazienti è relativa ad una carenza nel rappresentare il desiderio: «ci possono essere pensieri di desiderio solo dove c’è un pensiero» (Green, 1991 [1974], p. 71). Ed è qui che entra in gioco Bion: il pensiero non nasce spontaneamente, bensì in risposta alla frustrazione, creata da un limite. Il limite, per definizione, crea frustrazione e questa crea pensiero: in tal senso, la funzione del terapeuta come rappresentante della coppia CGI è di fondamentale importanza.

La CGI è una funzione della mente che si occupa della mente stessa; è quella parte interiorizzata della persona che si occupa della persona medesima, proteggendo, limitando e orientando il desiderio in senso maturativo. Il complesso edipico, in quanto struttura simbolizzata e simbolizzante, è alla base della scelta del terapeuta di porsi come rappresentante del padre, della madre e della coppia genitoriale. L’Edipo freudiano, dunque, viene continuamente costruito e ricostruito durante il lavoro psicogenerativo: una parte del paziente, infatti, si oppone con tenacia all’esclusione dal piacere della CGI, in preda a invidia e gelosia. È qui che entra in scena la derivazione kleiniana di tale ottica generativa: la capacità di riparazione e ricostruzione della CGI è, infatti, possibile grazie ai movimenti «distruttivi-ricostruttivi» dell’oggetto totale teorizzati dall’autrice (il passaggio dalla posizione schizo-paranoide a quella depressiva).

Lo psicoterapeuta deve impegnarsi a rappresentare una CGI accudente ed accogliente, ma anche limitante e normativa: una coppia genitoriale che escluda il figlio dal suo legame erotico non con connotazione sadica e punitiva, ma per permettergli di generare e trarre piacere esso stesso, perseguendo e concretizzando i suoi desideri nella realtà. Una CGI sufficientemente sana, permette, infatti, un’adeguata capacità di accettazione ed elaborazione del limite, così come un buon rapporto con la realtà e l’oggettualità. Tale rapporto è fondamentale, in quanto l’appagamento del desiderio, per essere realmente tale, deve avvenire nel mondo reale, nel quale si agisce con potenza, e non nel mondo onirico, caratterizzato da un’illusoria onnipotenza. All’interno della mente, infatti, coesistono due antagoniste modalità di rappresentazione: quella legata al narcisismo, onirica, capace di derive magico-onnipotenti che scavalcano l’ostacolo del limite; e quella legata al pensare in quanto capacità di confrontarsi con la realtà, facendo fronte alla frustrazione che i suoi limiti impone, attivando un pensiero finalizzato all’appagamento di desiderio in modo concreto e operativo.

L’identificazione con un terapeuta che, in quanto CG autorevole, responsabile e protettiva limita e si auto-limita, permette al paziente di introiettare tale capacità: avere a che fare con il limite, con l’esclusione dal rapporto erotico genitoriale, gestendo e sopportando la frustrazione che questo comporta; potendo in tal modo attivare il pensiero e la propria potenza, cercando e trovando appagamento e piacere nella realtà e nell’Altro, al di fuori del rapporto con i genitori.

Tale lavoro può essere svolto grazie al focus sul transfert, sulla relazione hic-et-nunc tra paziente e terapeuta, in un continuo lavoro di creazione di significati sempre più approfonditi e generativi. Il focus sulla relazione è fondamentale, in quanto parlare ed elaborare il rapporto con il terapeuta-CGI permette di restaurare i rapporti interni tra le proprie parti: il terapeuta (la relazione) è lo strumento per modificare e restaurare la dinamica intrapsichica del paziente e le sue relazioni oggettuali.

Tale metodologia è attuabile all’interno di un’ottica costruttivista: il significato di ogni evento psichico, ed in primis del sogno, non è mai svelato e scoperto una volta per tutte, ma sempre costruito e ricostruito. I racconti del paziente, sia di sogno che di realtà, devono sempre essere letti alla luce del transfert, in quanto il terapeuta rappresenta una parte del paziente stesso. Ed è proprio il sogno uno degli strumenti basilari utilizzati dal terapeuta psicogenerativo per aiutare il paziente a costruire la capacità di distruggere e riparare continuamente la sua CGI. Il significato del mondo onirico del paziente deve essere costruito assieme al terapeuta, scegliendo un linguaggio comune (un fatto scelto) che metta ordine nell’irriducibile confusività onirica. Da questo punto di vista il «sogno solo sognato» non è concepito come portatore di un significato occulto che deve essere svelato – secondo la logica decodificatoria del modello freudiano classico – ma rappresenta un materiale grezzo il cui senso deve essere costruito nel contesto della relazione terapeutica. Il senso è, dunque, polisemico e la costruzione interpretativa lo riduce a una serie di sensi possibili (benché non illimitati). Più che scoprire il senso nascosto del sogno, si tratta di favorire delle trasformazioni che potranno essere reperite nei sogni a venire: tale orientamento teleologico si declina nell’obiettivo di costruire la CGI e la capacità di ripararla, distruggerla e costruirla continuamente. Tale fine viene perseguito partendo da postulati chiari e motivati, che fungono da coordinate che governano le molteplici (ma non infinite) costruzioni interpretative del sogno. Nello specifico, il terapeuta si pone da subito come rappresentante della CGI, mentre al paziente spetta il ruolo del figlio: il terapeuta, partendo dal sogno del paziente, considerato come una sorta di sceneggiatura teatrale, interpreta il ruolo della CG, cercando nel contenuto manifesto del sogno dove questa compare e come viene rappresentata. Coerentemente con il modello edipico il terapeuta non può interpretare ruoli che lo costringerebbero nella posizione di figlio, partner e fratello o in quello del sognatore stesso. Le figure genitoriali presenti nel sogno manifesto possono essere molteplici e svariate, così come anche assenti o rappresentate in modo parziale e deformato: la teatralità dell’interpretazione diventa, così, peculiare e basilare all’interno del modello generativo. Starà alla creatività e alla rêverie del terapeuta valutare dove e come inserirsi all’interno del sogno (verificando se vi è posto per lui), potendo anche decidere di rifiutare il ruolo che il paziente cerca di attribuirgli oppure accettandolo, ma modificando il corso e l’intreccio della trama onirica, proponendo una versione alternativa di tale ruolo (questo se il paziente cerca di far assumere al terapeuta-CGI una funzione aggressiva o seduttiva, maltrattante o ambigua, che non limita l’Io-dio1 del sognatore).

Il fil rouge che percorre l’intero impianto psicogenerativo è relativo all’identificazione degli ostacoli – in buona parte riconducibili all’azione dell’Io-dio e delle sue modalità di pensiero magico-onnipotenti – che si frappongono alla capacita di pensare e amare secondo il modello genitale, metaforizzato nel concetto di CGI.

È su queste basi teoriche che poggia il lavoro psicoterapeutico costruito con Kora e qui presentato. Kora: 15 anni, terzogenita di una madre assente, austera, poco incline all’emotività; e di un padre distante, inaffidabile, dedito all’alcol. Cresciuta in una famiglia isolata, carente di affettività e dialogo, contrassegnata dalla mancanza di accudimento e protezione. Tuttora, Kora, vive una profonda solitudine, mascherata dall’idea di essere autonoma e matura.

Inizia la psicoterapia in seguito alla denuncia di abusi sessuali subiti da parte dell’attuale marito della madre: è stato Fidel (amico, fidanzato, nemico, in perenne oscillazione) a sostenerla in tale processo; la madre, come unica reazione alla confessione di Kora, aveva chiesto al marito di non farlo più. L’uomo è stato incarcerato, processato e condannato a 5 anni di reclusione.

Specialmente durante i primi mesi di presa a carico, Kora mostra un importante distacco emozionale, un ottundimento dei sentimenti, l’intrusione di pensieri legati agli abusi, momenti di dissociazione e distacco dalla realtà contingente, una memoria a tratti labile e un attaccamento quantomeno ambivalente. A livello strutturale, Kora mostra un funzionamento mentale dominato dalla scarica: il dolore e la sofferenza vanno perlopiù evacuati attraverso il corpo e il comportamento. L’accesso alla mentalizzazione e al pensiero trasformativo sono difficili; i meccanismi di difesa sono arcaici (scissione, identificazione proiettiva, negazione, agiti, svalutazione/idealizzazione); l’ambivalenza rispetto al legame con l’oggetto è forte (tende a svalutare l’oggetto al quale si lega quando si sente invasa, mentre sollecita in tutti i modi una nuova vicinanza non appena teme l’abbandono o la distanza). Kora sembra cercare «un partner a metà», una relazione di non reciprocità: appare mossa dalla logica della disperazione (Green). Il bisogno che muove Kora sembra essere quello del dolore: cerca oggetti cattivi che la puniscano, in una continua spirale discendente di demerito e svalutazione. Nel suo mondo psichico Kora non può essere apprezzata e degna d’amore, in quanto non meritevole e non sufficientemente buona da poterlo permettere. Il funzionamento mentale è, dunque, dominato da un assetto post-traumatico e dissociativo, con molte delle peculiarità tipiche del funzionamento delle strutture borderline.

In una tale cornice, gli obiettivi terapeutici che fungono da guida sono quelli di poter attivare nuovamente la capacità di generare e pensare a fondo i pensieri (Bion), riparando la CGI e affinando la capacità di Kora di poterla continuamente distruggere e ricostruire. Tale evoluzione terapeutica può essere intuita e interpretata attraverso l’analisi del racconto di tre sogni, che sembrano segnalare tre momenti di snodo e di cambiamento all’interno del mondo relazionale e psichico di Kora. La prima fase della terapia ricopre, circa, le prime 10 settimane di lavoro: la conoscenza, la costruzione dell’alleanza terapeutica e l’inizio del processo. La seconda fase è, invece, più lunga e ricopre quasi un anno di terapia; così come la terza.

Kora entra nel locale di consultazione e alla mia prima domanda risponde: «sono qui perché il marito di mia mamma mi toccava le parti intime». Tale frase viene riportata con totale distacco e freddezza, come se fosse il titolo di un film visto, ma da dimenticare. L’appiattimento del mondo emotivo e il non accesso all’affettività permangono durante tutto il primo periodo della terapia. Il ricorso alla scissione e alla dissociazione paiono evidenti e massicci.

Kora sembra, infatti, voler attivamente scacciare gli affetti legati al ricordo degli abusi, evitando di parlarne e di sentire le emozioni ad essi collegate: in una seduta riferisce di aver già perdonato, perché «non si può vivere nell’odio» e sua madre le ha insegnato che tutto è perdonabile (in tale occasione, emerge il racconto del nonno materno che, dopo aver violentato una bambina, ha chiesto scusa ricevendo, appunto, il perdono da parte della madre di Kora). Questo apparente perdono sembra piuttosto un tentativo di poter forcludere gli abusi, attuali e transgenerazionali, cercando in tal modo di poterli dimenticare e non pensare. Dalle parole di Kora sembra trasparire lo sforzo messo in atto per cercare di rendere quanto accaduto qualcosa di poco conto e scevro da emozioni: qualcosa che si possa superare e archiviare in poco tempo, in modo tale da poterlo eliminare dall’orizzonte della propria consapevolezza. Quasi un tentativo razionale di scindere le emozioni dall’evento e dissociare questo aspetto della sua identità (eliminare la parte traumatizzata e il trauma), cercando attivamente di dimenticare anziché pensare a fondo e trasformare. Kora, infatti, in questa prima fase di terapia, è molto più incline all’agito, alla scarica fisica, spesso a sfondo sessuale. Durante questi primi mesi, Kora vive una sessualità compulsiva, qualcosa da usare nella relazione e che le permette di perseguire la logica della disperazione, non uno scambio intimo e affettivo per dare e trarre piacere. Attraverso la sessualità esprime il suo bisogno di punizione e di svalutazione narcisistica: una sua parte interna ricerca il dolore, ha bisogno di soffrire. Non vi è accesso alla dimensione del piacere e dello scambio, le relazioni sono giocoforza a tinta pre-genitale: l’altro è oggetto oppure è Kora stessa ad essere l’oggetto dell’altro. Il risultato rimane sempre il dolore e la conferma del proprio disvalore.

A tratti, Kora sembra quasi non possedere un codice di lettura per comprendere gli altri a livello affettivo-relazionale e sessuale, cosa sia lecito e cosa non lo sia. L’obiettivo principale dell’assetto mentale della ragazza, allo stato attuale, è quello di non sentire niente, non provare emozioni, non interrogarsi, non sviluppare nessuna teoria della mente, a scopo difensivo.

Questa prima parte di terapia è contrassegnata dai continui ritardi di Kora: siamo ancora in una fase iniziale, di poco accesso al pensiero trasformativo, per cui i suoi atti sono sovente «parlanti». Per i primi tre mesi, Kora non salterà mai una seduta, ma non giungerà quasi mai puntuale a nessuna di esse, arrivando anche fino a quarantacinque minuti dopo l’orario convenuto. Per tale ragione, dopo le prime volte, mi ritrovo a fissare i colloqui di Kora in momenti della giornata che permettano questi enormi ritardi, senza toglierle tempo di terapia. A posteriori, questa prima fase sembra ricalcare e ripetere la fase della relazione simbiotica tra madre e neonato, dell’illusione tipica di questo momento (Winnicott): una madre sufficientemente buona c’è sempre, a prescindere, fornisce una presenza pressoché totale al neonato. Mi trovo poi ad accompagnare Kora fuori dall’area dell’illusione simbiotica, nel momento in cui sento che può tollerare la frustrazione e il limite: le fisso un colloquio subito dopo, e immediatamente prima, di un altro, facendoglielo ben presente (sottolineando, così, che un suo ritardo avrebbe inevitabilmente comportato una diminuzione del tempo della seduta). Al fatidico appuntamento, Kora si presenta addirittura in anticipo: bisogno di controllo ed espressione di una certa quota di aggressività (causata dalla rottura dell’illusione simbiotica). Kora vedrà la ragazza prima di lei uscire dallo studio e mi farà vivere la sua delusione e il suo senso di esclusione facendomi sentire contro-transferalmente in colpa. In tale frangente, inizio a mettere in atto l’interpretazione teatrale della CGI: la madre non può essere totalmente e perennemente presente per la figlia, c’è un’assenza sana, dovuta alla presenza del padre al quale la madre deve poter dedicare le sue attenzioni. L’esclusione necessaria della figlia dal rapporto tra la madre e il padre (il terzo separante) è ciò che consente di aprire la strada alla relazione. Da quel momento i ritardi cessano e, la settimana dopo, Kora mi informerà di arrivare sempre dieci minuti prima dell’orario fisso convenuto, «così se ogni tanto ti liberi prima io sono già qui». È proprio durante tale seduta che Kora racconta il suo primo sogno: «ero seduta a tavola con Fidel e tanta altra gente che non ricordo. Non riuscivo a respirare. Devo alzarmi e uscire, allontanarmi dal tavolo. Fidel mi segue e mi abbraccia. Mi calmo e respiro.»

Questo primo racconto di sogno segnala due eventi, di capitale importanza. Il primo è il gesto di fiducia e alleanza di Kora nei miei confronti: la ragazza, infatti, raccontandomi il sogno mi dà accesso al suo mondo interno, alla sua intimità, segnalandomi che una sua parte è pronta a lasciarsi accompagnare lungo questo cammino.

Un altro evento che questo sogno segnala è proprio la mancanza dell’aria, che possiamo leggere anche come bisogno e consapevolezza di frustrazione per poter attivare il pensiero. Secondo Bion non può esservi pensiero senza frustrazione: è solo davanti alla mancanza che il soggetto deve mettere in atto il suo apparato per pensare i pensieri e potervi, in tal modo, farvi fronte in maniera adeguata. Per esplicitare tale teorizzazione, l’esempio più classico è proprio quello dell’aria: finché l’ossigeno è presente, accessibile in modo stabile e regolare, nessun pensiero si attiverà rispetto ad esso. Nel momento in cui, invece, non si riesce a respirare a causa di una carenza di ossigeno, si riuscirà solo a pensare proprio a quest’ultimo.

Kora, con questo primo racconto di sogno, sembra dunque parlare alla terapeuta sia del bisogno di qualcuno che le dia respiro, sia di qualcuno che glielo tolga: in termini metaforici, quindi, poter trovare un alleato che la aiuti ad attivare il pensiero, per iniziare a non dover ricorrere sempre e solo alla scarica, agli agiti, alla scissione. E là dove vi è scissione, indispensabile è la presenza di due menti, che si diano respiro l’un l’altra, che creino aria nuova.

Altresì degno di nota è l’impossibilità di trovare un posto genitoriale nel sogno di Kora: in esso, infatti, sono presenti solo delle figure non identificate (che creano confusione e mancanza d’aria) e la figura di Fidel (che, in quanto compagno della ragazza, non può essere interpretato dalla terapeuta). Tale primo sogno sembra sottolineare come la mancanza d’aria possa equivalere all’assenza di una CGI stabile e costruita; e senza CGI non è possibile respirare-pensare.

Il rimando che si fa a Kora è, dunque, di tipo teleologico: vedere da questo punto in avanti come evolveranno i sogni e le sue rappresentazioni interne, come e quando il terapeuta-CGI comparirà e inizierà la sua costante costruzione e decostruzione.

Inizialmente, anche durante la seconda fase, il mondo interno di Kora continua ad essere sotto il giogo dell’esperienza traumatica vissuta: la ragazza afferma di non provare nulla rispetto al processo in corso, ai ricordi degli abusi, agli eventi rinarrati e riascoltati in sede processuale. Una volta emessa la sentenza, Kora mi informa di non essere assolutamente interessata alla questione, di non provare nulla al riguardo, di non volerne sapere più niente.

Tuttavia, riporta di essere molto stanca e affaticata, di dormire male e di avere degli episodi di pianto improvvisi e inconsolabili senza nessuna ragione. La scissione degli affetti, come difesa al ricordo traumatico, pare preponderante. Anche la tendenza all’evacuazione a scopo difensivo è predominante: si susseguono racconti di feste, abusi etilici, corse a perdifiato per non pensare. Il funzionamento mentale è dominato dalla scarica: vissuti depressivi e di vuoto non possono essere avvicinati e pensati. Parallelamente, anche la sessualità continua ad essere agita compulsivamente, senza connotazioni affettive e di piacere, vissuta difensivamente come qualcosa di banale e superficiale. Kora racconta di «lasciarsi fare», di non essere in grado di limitare e limitarsi, di «fare le cose così a caso, penso solo dopo se volevo o no». Il desiderio non appare definito e costruito, risulta instabile e spesso al servizio di un bisogno masochistico di punizione. Kora si pone al servizio dell’altro, come oggetto del desiderio altrui, senza nemmeno pensare che la sfera sessuale e relazionale potrebbe e dovrebbe essere un piacere anche per lei (non c’è l’ottica dello scambio).

Kora non può tollerare e vivere il vuoto, condizione imprescindibile affinché si possa sentire e costruire un desiderio (Bion): non sa cosa vuole e non sa cosa le piace, sottostando passivamente ai bisogni dell’altro, lasciandosi definire da essi («mi sono obbligata a fare sesso con lui anche se mi faceva schifo») e potendo solo specchiarsi nel desiderio altrui.

Col passare del tempo e delle sedute, tuttavia, Kora inizia lentamente a muoversi dalla sua posizione ed emerge per la prima volta un sentimento che si rivelerà una fondamentale chiave d’accesso al suo mondo emotivo e all’inizio del cambiamento: lo schifo. Lo schifo diventa il vissuto che arriva a mettere ordine nel mondo psichico: segnala un approfondimento del pensiero, l’avvento di un segnale emotivo che possa far chiarezza su un abbozzo di desiderio (cosa piace e cosa no) e che possa permetterle di regolarsi.

Tutto inizia dopo un weekend particolarmente intenso e carico di agiti sessuali: dopo la narrazione degli eventi in seduta e la conseguente ri-narrazione terapeutica degli stessi, Kora si alza in piedi al termine del tempo dicendo «mi faccio schifo, è stato schifoso». Da questo momento, lo schifo entra come fatto scelto e regolatore del suo mondo interno, fino a permetterle di risignificare gli abusi (aprés-coup; Green) e di mettere ordine tra le emozioni, i pensieri e i comportamenti. Kora racconta di aver pianto una notte intera: inizialmente, come al solito, le lacrime sgorgano senza apparente motivo e totalmente sconnesse da qualsivoglia affetto; in seguito, mentre piange iniziano ad affiorare i ricordi: per la prima volta, le provocano una sensazione «di nausea e schifo», un disgusto profondo verso tutto quello che le è stato fatto e che ha passato. Il pianto si colora di tristezza, dolore e rabbia: la sofferenza compare anche in seduta, durante il racconto.

Gli abusi subiti, la passività e tutti gli agiti compulsivi iniziano a diventare qualcosa di egodistonico, delle esperienze che non le appartengono: Kora sta usando lo schifo come un organizzatore dell’esperienza, in un movimento maturativo, sta mettendo per la prima volta dei limiti.

La forza e l’importanza di tale passo è sottolineata dal racconto del secondo sogno: «sono a casa di Fidel, ci sono anche sua mamma, suo papà e una tipa sconosciuta. Vado in camera con Fidel: prima siamo amici, ridiamo e scherziamo, poi però lo bacio e lui si ritrae. Torniamo amici, ridiamo e scherziamo, poi però è lui a baciare me e finisce che facciamo sesso. La tipa sconosciuta entra in camera e si fuma una canna con noi. Arriva la mamma di Fidel che mi insulta tantissimo e mi sgrida, mi odia proprio. Usciamo tutti di casa perché io devo tornare a casa mia, piove forte, andiamo tutti in stazione e ci diamo l’addio. È un addio vero.»

In tale sogno, infatti, compare la figura della madre: senza lasciarsi ingannare dalla logica onirica, che vorrebbe dipingere il ruolo materno come negativo, è fondamentale notare come tale figura genitoriale (oltre ad essere presente) entra in scena per mettere un limite, per interrompere un appagamento allucinatorio e non generativo. Tale racconto di sogno segnala l’inizio dell’interiorizzazione e di una possibile riparazione della CGI: ancora fragile e attaccata (è, infatti, monoparentale), ma tuttavia finalmente presente e limitante. La madre del sogno interviene come antagonista dell’assetto autoerotico, contraria e ostile all’accoppiamento masturbatorio con il Fidel onirico: questo è positivo proprio perché l’assetto autoerotico può interferire con le relazioni reali e con la ricerca dell’appagamento relazionale. In questo sogno si può notare un abbozzo di limite contro l’autoerotismo e, contemporaneamente, nella vita reale inizia ad emergere un’emozione congruente (lo schifo per l’assetto autoerotico nella realtà, per una sessualità agita senza la ricerca di un vero rapporto oggettuale di scambio).

La presenza di un’iniziale interiorizzazione della figura della terapeuta-CGI (assieme allo schifo come segnale emotivo), inizia a chiarire e limitare anche gli aspetti più affettivo-relazionali: le relazioni di Kora, basate sulla non-reciprocità e sulla confusione tra l’assetto erotico e genitoriale, iniziano a diventare egodistoniche e poste sotto l’egida del dispiacere. In tal senso, l’addio alla casa di Fidel e il ritorno verso la propria casa, dopo il limite posto dalla madre di sogno, può essere visto come un movimento maturativo importante, che sottolinea a livello onirico quanto sta avvenendo a livello reale. Fidel, nel racconto, è il rappresentate dell’ordine perverso, ovvero di un ordine senza differenze di genere e di generazione, quindi senza nessun tipo di limite. Fidel è il simbolo dell’Io-dio, dell’autogenerazione, del narcisismo assoluto: la madre interna che la maltratta è la parte di Kora che sta iniziando a provare lo schifo, che interviene con il limite, che mette le regole e che sostiene il rapporto con la realtà.

I passi avanti di Kora, tra progressioni e regressioni, continuano; così come il suo dilemma tra l’assetto narcisistico auto-erotico e il rapporto genitale con la realtà.

A fare da sfondo, la relazione con Fidel: i due continuano ad attraversare momenti di rabbia e liti furiose, alternati a riappacificazioni. Finalmente, Kora può permettersi di sentire e provare sentimenti negativi nei confronti di Fidel: dice di odiarlo e di volerlo picchiare per averla tradita. Dopo la rabbia emerge, poi, la tristezza: Kora descrive lunghi pianti e una profonda malinconia, che vengono connotati positivamente, in quanto soffrire il dolore equivale a poterlo, infine, pensare. In tale ambito, si può notare come si delinei una maggior internalizzazione della posizione depressiva kleiniana, posizione che permette di vivere l’oggetto non più come totalmente buono o cattivo, bensì come oggetto ambivalente, sia buono che cattivo. Accanto allo schifo arriva, così, il dolore come segnale e sentimento protettivo: entrambe le sensazioni, se vissute e anticipate, permettono di evitare le situazioni che le provocano.

La sessualità di Kora inizia, a poco a poco, a diventare qualcosa di diverso, non più banale e di poco conto: per la prima volta, Kora riesce a provare piacere durante un rapporto sessuale e sente che tale dimensione vissuta ed esperita con Fidel è qualcosa di molto positivo e speciale; «prima il sesso era solo un modo per non pensare ai problemi».

La diminuzione degli agiti è sempre più evidente, ora Kora appare sempre più in grado di anteporre un pensiero all’azione. La ragazza trova un aiuto nella mia presenza concreta: Kora inizia a mandarmi messaggi o a chiedermi delle telefonate nei momenti di urgenza o sconforto. Anziché passare all’atto, all’abuso etilico, alle derive sessuali, mi cerca e io mi faccio trovare. Tali scambi telefonici le permettono di arginare nell’immediato l’angoscia, di far fronte alla necessità di evacuazione immediata e di poter attendere la seduta immediatamente successiva senza comportamenti autolesivi. Alla base di tale decisione terapeutica, vi è la volontà di far continuare Kora sulla strada del processo di interiorizzazione di un’immagine materna diversa: accudente e protettiva, presente e concretamente di sostegno in quanto oggetto esterno. Trovare la terapeuta e poterle parlare, le permette di sperimentare un rappresentante materno presente, che pensa a lei e per lei. Allo stesso modo, farle trovare sempre il cavo per caricare il suo cellulare e sostituire tale strumento una volta rotto; consigliarle un ginecologo e spiegarle l’utilizzo della pillola anticoncezionale; chiamare il suo avvocato per informarmi; sono tutti atti parlanti. Quello che promuovono è un’identificazione alla mia parte materna accudente, in modo tale che lei possa, a poco a poco, interiorizzare tale figura materna protettiva e sufficientemente buona; cioè una figura materna non idealizzata e imperfetta, che assuma su di sé le caratteristiche dell’oggetto totale (che presenta sia parti buone che parti cattive). Tale figura materna ambivalente, sia buona che cattiva, potrà essere interiorizzata grazie anche alla ritrovata possibilità di Kora di accedere alla posizione depressiva, come descritto pocanzi. Infatti, inizia ad emergere una profonda rabbia nei confronti della madre reale, mai espressa e sentita prima.

Kora durante le sedute inizia a verbalizzare e a vivere un profondo astio nei confronti delle figure genitoriali (in particolare, quella materna): «la odio perché è tutta colpa sua quello che è successo», riferendosi sia agli abusi del marito, che a un episodio precedente quando aveva otto anni. Kora riferisce di faticare a parlare con la madre, di provare un enorme fastidio nei suoi confronti e di aver capito come non sia mai stata protettiva e accudente. Ciò è possibile perché Kora sta costruendo una rappresentazione interna di una figura materna diversa, da poter confrontare con la madre esterna. La ragazza sta costruendo un oggetto interno accudente che può confrontare con quello esterno, verso il quale prova odio perché sente che non corrisponde al modello che, lentamente, sta creando nel suo mondo interno. Inoltre, tale identificazione all’oggetto protettivo e accudente, le permette di iniziare a sentire che anche lei ha diritto ad essere amata in modo ordinato e consistente. Di estrema importanza sarà, quindi, riuscire a non proporre l’immagine di una figura materna perfetta, che uscirà sempre vincitrice rispetto al confronto con la madre esterna reale (e, proprio in quanto tale, imperfetta e deludente), rendendo quest’ultima un oggetto totalmente svalutato. Solo in questo modo Kora potrà appoggiarsi a una figura genitoriale completa e totale, sia buona che cattiva, da poter amare e odiare senza troppo timore delle ripercussioni; senza cadere preda dell’idealizzazione da una parte e dalla svalutazione dall’altra.

Anche il sogno raccontato porta con sé gli indizi di tale costruzione interna: «sono in casa con mia mamma e sto partorendo il figlio di Gianni (anche se il mio moroso è Fidel). Non soffro perché mi hanno fatto la puntura, mia mamma è di fianco a me e partorisco serenamente. Non appena il bambino nasce me ne innamoro: è bellissimo, mi connetto subito con lui, sono felicissima. Quando mi sveglio mi invade la disperazione, perché capisco che quel meraviglioso bambino non esiste, non l’ho avuto davvero.»

Il neonato può rappresentare una nuova parte della sognatrice: una parte neonata che viene portata, attraverso il racconto, alla terapeuta che in quanto rappresentante della CGI è chiamata a prendersi cura, ad accudire, il nuovo bambino-desiderio di Kora. Il bambino che nasce nel sogno potrebbe, dunque, rappresentare una sua parte nuova che deve crescere ed essere accudita: nel sogno, inoltre, emerge una figura materna amorevole e supportiva, che sembra rappresentare una parte sua che ne accudisce un’altra (un abbozzo di costruzione e interiorizzazione della CGI, in quanto parte interna deputata anche a tale funzione). Parallelamente, tale movimento interno trova il suo corrispettivo all’esterno: Kora, infatti, problematizza il suo desiderio di voler cambiare allenatori. La coppia attuale, infatti, non la segue come dovrebbe e Kora sente che potrebbe trarre maggior beneficio e sostegno da allenatori maggiormente in grado di sostenerla e spronarla. Vorrebbe qualcuno che si occupi e preoccupi di lei a livello sportivo, riuscendo anche (dopo averci pensato a lungo in terapia) a parlarne con i diretti interessati, mostrando così di aver davvero iniziato a cercare di auto-proteggersi in maniera attiva.

Infine, da evidenziare l’enorme delusione riportata al risveglio: Kora comunica di aver provato un tale amore per il neonato sognato, che non averlo trovato tra le sue braccia nella realtà l’aveva distrutta. Per un giorno intero riesce solo a pensare a quanto vorrebbe un figlio, guarda foto di bambini, ripensa continuamente alle emozioni provate in sogno. Il dilemma sottostante è quello tra il desiderio di vivere nel suo mondo interno, in una modalità narcisistica (totalmente appagante, in quanto illusoria e priva di limiti) e iniziare ad operare nella realtà, con le delusioni che giocoforza questo comporta. Ora che l’apparato per pensare i pensieri sembra essersi sbloccato, la tematica basilare appare quella dell’equilibrio tra la tendenza narcisistica ad auto-appagarsi e ad arrangiarsi da sé e l’incontro con la realtà e l’Altro, fonti probabili di delusioni (non ci sono, infatti, oggetti ideali nella realtà). Una prima nota tendenzialmente positiva è il fatto che l’ossessione di avere un figlio svanisce dopo poche ore: Kora riesce a capire da sola che desiderio e realtà sono due cose diverse, senza passare all’atto.

Dopo tre anni di psicoterapia e mille pensieri spesi da parte mia sul nostro percorso, giunge il momento di ascoltare anche le opinioni di Kora stessa. Alla ragazza viene chiesto, durante una seduta, di fare il punto della situazione: cosa ha significato per lei la terapia, quali sono i suoi ricordi rispetto ad essa, i momenti salienti e le sue aspettative future.

Per Kora, la svolta più importante è stata capire che stava vivendo nella passività: «mi hai fatto svegliare, anche con i ragazzi, con tutto». Al momento del nostro incontro, Kora non sentiva niente, non aveva emozioni e non dava ascolto al suo mondo interno: «non riuscivo a pensare a niente; facevo più finta, in tutti i sensi e in tutto». Ora sa di avere un mondo emotivo, lo ascolta e lo sente e cerca di vivere il più in sintonia possibile con esso, in modo tale da sentirsi anche più autentica.

È soddisfatta di quanto ottenuto ad oggi, ma sente e sa di avere ancora bisogno del processo terapeutico: afferma che i suoi obiettivi sono quelli di riuscire a stare ancora meglio e di poter raggiungere una certa stabilità.

La frase che segnala l’interiorizzazione della terapeuta-CGI arriva alla fine dell’incontro: «ho capito che fare psicoterapia non è avere delle risposte, ma approfondire delle domande».

Tale affermazione, infatti, esplicita il mio pensiero e i miei obiettivi terapeutici, senza che io li abbia mai verbalizzati apertamente: pensare fino in fondo i pensieri, andare sempre più in profondità, significa continuare a porsi domande per cercare sempre nuove risposte2. In tal senso, Kora sembra affermare di aver compreso che il significato della terapia è quello di diventare generativi: generare nuovi contenuti, pensieri, collegamenti, in continua oscillazione tra il caos e l’ordine.

Kora sembra aver potuto identificarsi alla mia figura e, in seguito, interiorizzarla in quanto rappresentate della CGI: una coppia riparata e predisposta a sostenerla nel pensiero generativo.

Bibliografia

Blanchot, M. (1969). L’entretien infini. Parigi: Gallimard.

Green, A. (1991 [1974]). Psicoanalisi degli stati limite. La follia privata. Milano: R.Cortina.

Marcoli, F. (1997). Il Pensiero Affettivo. Como: RED.

Marcoli, F. (2005). Brutto è il bello, bello è il brutto. Lugano: Edizioni IRG.

Marcoli, F. & Branca, S. (2014). Tre storie: pregenitalità e cultura. Bergamo: Sestante Edizioni.

Viederman, S. (1982). La construction de l’espace analytique. Parigi: Gallimard.

L’autrice

Elisa Tommasin è psicologa e psicoterapeuta. Laureata in Psicologia Clinico Dinamica presso l’Università degli Studi di Padova, ha svolto la specializzazione in psicoterapia psicodinamica presso l’Istituto Ricerche di Gruppo di Lugano. Dopo svariati anni di lavoro all’interno dei servizi cantonali per i minorenni (ambulatoriali e semi-residenziali), attualmente svolge la professione nello studio Clinica Psiche di Lugano, occupandosi di tutte le fasce d’età. Attualmente collabora con il gruppo di direzione dell’Istituto Ricerche di Gruppo in qualità di rappresentate degli studenti ed ex studenti.

Contatto

E-Mail: elisatommasin@hotmail.it

Note

1 L’antagonista della CGI: il nucleo onnipotente e narcisistico della personalità. È la tendenza a fare coppia con se stessi eludendo l’esclusione e la realtà.

2 «La réponse est le malheur de la question» (Blanchot, 1969).